AI CONFINI DEI DIRITTI UMANI

Report del “Refugees Welcome Support Tour” 08-16.11.15
20151111_132338“Refugees Welcome Support Tour” è un progetto indipendente e autofinanziato, nato dal bisogno di vedere con i propri occhi quello che si legge già da troppo tempo sui giornali e dalla voglia di compiere azioni dirette di solidarietà attiva per i migranti. Sedici persone diverse, senza conoscersi in precedenza, si sono imbattute per caso nel progetto e sono partite per una settimana la sera dell’otto novembre verso la “rotta balcanica” con tre macchine, due furgoni e due rimorchi pieni di offerte raccolte in precedenza, principalmente giacche e vestiti caldi per l’inverno, ma anche cibo e accessori per l’igiene personale.

A soli 900 km da Berlino, o a meno di 350 km da Venezia, solo per fare due esempi, non molto lontano dalle nostre calde e comode case, insomma, c’è un posto in cui ogni giorno migliaia di persone aspettano “al freddo e al gelo” dopo chissà quante ore di cammino, dopo aver già attraversato chissà quante frontiere, in chissà quali condizioni meteorologiche, fisiche e psicologiche, il proprio turno: il tanto aspettato, agognato momento dell’ingresso in Austria. La nuova terra promessa, il punto di arrivo di quella che è stata chiamata “Rotta Balcanica”, definizione eufemistica utilizzata per descrivere l’itinerario dell’esodo interminabile di migliaia e migliaia di persone costrette a lasciare la propria casa, la propria terra, contro la propria volontà, perdendo tutti i propri averi e rischiando in molti casi la propria vita.
Sono Spielfeld e Sentilj i due paesini a ridosso del confine, rispettivamente in Austria e in Slovenia, in cui attualmente confluiscono tutti i migranti provenienti dai vari “centri di registrazione” della Slovenia, da quando l’Ungheria ha chiuso i confini. La rotta balcanica, da quando è iniziato l’esodo, infatti, non è più la stessa che si seguiva qualche mese fa.
Nonostante ci siano solo una decina chilometri di distanza tra Spielfeld e Sentilj, quando gli ordini superiori austriaci bloccano gli ingressi, migliaia di persone restano bloccate al confine e l’attesa è di svariate ore. Stranamente le Ong non hanno, per cause ignote, accesso a questa zona. Solo militari e poliziotti possono accedervi; autorità che non esitano a usare violenza quando la situazione diventa insostenibile e qualcuno, al freddo, senza cibo e acqua, inizia giustamente a protestare. Non a caso questa zona è stata denominata “No Men’s Land” e se siamo a conoscenza della situazione è solo grazie ad alcuni volontari che sono riusciti ad ottenere il permesso per entrare.
È un paesino di campagna all’apparenza normale, Sentilj, molto carino, pieno di verde, di fiori, con la sua chiesetta di mattoni sulla collinetta proprio lì, di fronte al “centro di registrazione”. Se non fosse che questa quiete bucolica ogni tanto sia rotta da un fischio che annuncia l’arrivo di un altro treno carico di persone; alcune di loro affacciate alle finestre si guardano intorno spaesate. Supera la stazione, continua dritto e sembra entri proprio nel “centro di registrazione”. Quando ci è stato effettivamente confermato che i binari entrano proprio lì… un orribile déjà-vu. Per guadagnare tempo, per evitare il cambio con un ulteriore mezzo di trasporto, per dare meno nell’occhio, qualunque sia il motivo, rimane grottesco in ogni caso. Effettivamente la nostra impressione generale è che in quel posto nessuno veda e sappia nulla di quello che succede.
“Centro di registrazione” è un altro eufemismo che designa nient’altro che un agglomerato più o meno grande di capannoni di plastica, quelli delle fiere di paese per intenderci, dove i rifugiati vengono portati in massa, scortati da forze varie di polizia e militari, attraverso transenne e recinzioni, in fila per uno, all’interno di un tendone; qui poi vengono perquisiti, identificati e registrati con fotografia e impronte digitali. Colloquialmente si chiamano camp/kamp/campo.
Sentilj CampLe forze dell’ordine di turno al campo di Sentilj hanno avuto sicuramente l’ordine superiore di non essere molto amichevoli con i volontari che spesso vanno lì ad offrire aiuto o semplicemente a portare vestiti e cibo. Dicono che non servono, che già c’è tutto, e volontari ce ne sono abbastanza, c’è la Croce Rossa, la Caritas e poi ci sono loro, certo, con i mitra in mano, per rassicurare e proteggere tutti (a dire la verità però qualcuno ci guarda anche con aria di fastidio e disprezzo). Altri colleghi seduti un po’ più in là invece ridono e scherzano con i loro smartphone in mano.
Non ci è chiaro cosa succeda esattamente lì dentro, supponiamo però la stessa procedura del campo di Dobova, in cui dopo varie difficoltà siamo riusciti ad entrare. Sappiamo che a Dobova restano giusto il tempo necessario alla registrazione, non restano a dormire, e che il flusso, o sarebbe più corretto dire il traffico di persone, è abbastanza scorrevole, forse perché hanno avuto l’ordine superiore di farle passare velocemente, per non farle rimanere lì troppo a lungo e per farle arrivare in Austria prima possibile.
Costretti dall’atteggiamento della polizia a lasciare il campo Sentilj, abbiamo proseguito verso Maribor, per lasciare almeno parte delle nostre offerte a due centri di raccolta, entrambi chiusi. Contattati telefonicamente, ci dicono che non possono ricevere nulla e ci devono mandare via anche loro, perché già pieni e in difficoltà nello smistare tutti i vestiti ai vari centri di registrazione.
Dopo questo ennesimo diniego, decidiamo di raggiungere il confine Slovenia/Croazia, precisamente due paesini con altri due campi, a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro, Dobova e Brežice. Trovarli non è stato facile, e non solo per il buio pesto delle campagne desolate che abbiamo attraversato. Sembravamo quasi essere alla ricerca di un posto tenuto ben nascosto. Finalmente in lontananza appare un’area illuminata, poco dopo si iniziano a distinguere camionette di polizia ed esercito, camion, ambulanze, gru e scavatrici e con sollievo ma anche paura, capiamo di aver trovato quello che cercavamo.20151112_115833
Anche qui fredda accoglienza, il campo è stato sgomberato proprio quella mattina per asfaltare il terreno e riaprirà fra qualche giorno. “Ma che fine ha fatto tutta la gente che era qui?” Alla prima domanda spontanea… nessuna risposta. “E dov’è l’altro campo? Sappiamo che ce n’è un altro in zona, se non due… abbiamo furgoni e rimorchi pieni e vorremmo aiutare, dove possiamo andare?” Ma ci sono già loro, dice indispettita una volontaria della Croce Rossa, e anche quelli della Caritas. Qualcuno, fiducioso nelle istituzioni, avrebbe preso sul serio le parole di quella donna e sarebbe andato via, magari pensando “qui in Slovenia è proprio tutto ben organizzato e sotto controllo!”
Decidiamo invece di restare, forse spinti dalla voglia di indagare meglio, di vedere con i nostri occhi cosa succedesse in quei paesini tanto tranquilli, perché fino a quel momento, neanche l’ombra di un rifugiato.
Ci fermiamo nel parcheggio della stazione ferroviaria di Dobova, proprio dove ogni giorno arrivano decine e decine di treni, ognuno con circa mille persone a bordo, da altri campi della Croazia. Anche la stazione sembra una normalissima stazione di un piccolo paesino di campagna, o perlomeno l’ingresso principale. Se non fosse per le camionette nel parcheggio laterale, appunto, o davanti al ristorante di fronte alla stazione. Camionette non solo slovene, ma anche austriache ed ungheresi. I comuni viaggiatori, gli uomini liberi, hanno accesso soltanto ai primi due binari della stazione per prendere i treni che viaggiano regolarmente. Il sottopassaggio è stato accuratamente blindato con delle porte di ferro.20151110_125926
Anche qui ci dicono che solo i volontari ufficiali possono entrare, quindi rassegnati decidiamo di andarci a registrare, ma chiedere informazioni a chi non vuole darle è come trovare un ago in un pagliaio. Dopo un lungo via vai tra varie stazioni di polizia e protezione civile e lunghe attese, infatti, non siamo riusciti a registrarci ufficialmente come volontari, ma abbiamo trovato l’altro campo, quello di Brežice, proprio alle spalle della stazione di polizia. 20151110_132544Impossibile l’accesso ovviamente perché completamente recintato, è molto più piccolo di quello di Dobova, c’è qualche volontario della Caritas e militari, ma anche lì, stranamente, non si vede nessun immigrato.
Torniamo alla stazione, qualcuno di noi inizia a pensare di andare via e proseguire il viaggio verso un altro posto. Scopriamo la strada di accesso alla stazione dal retro e proprio lì c’è un piccolo prato separato dai binari soltanto da una rete metallica con alcuni gazebo bianchi e poi un cancello di ferro, controllato da altre camionette.
Impossibile accedere ai binari, ci dicono le volontarie nei gazebo, se non si fa parte di una organizzazione umanitaria. Finalmente qualcuno ce lo dice in modo accogliente. Sono due volontarie ungheresi che hanno organizzato questa postazione in supporto alle altre organizzazioni “ufficiali” presenti. Anche loro erano arrivate come volontarie indipendenti, dopo l’esperienza in Ungheria, dove al contrario non c’erano molte Ong. Un’esperienza scioccante, a quanto racconta Babi, una donna sulla quarantina che insieme a suo marito Mohamed, che aiuta anche come traduttore, ha assistito a scene disumane, che solo a sentirle fanno venire la pelle d’oca. Non riesce a trattenere le lacrime quando le racconta. Chiuse le frontiere in Ungheria, la coppia, decisa a continuare a dare una mano, si è spostata in Slovenia, portando alcuni gazebo e scorte di cibo, bibite e vestiti. Sono riusciti a registrarsi come volontari tramite la Caritas e ad avere il permesso per restare lì, ma rischiano continuamente di essere cacciati, se non rispettano le regole.
In effetti hanno rischiato ad accoglierci, perché non potevamo nemmeno essere lì con loro senza il giubbetto e il tesserino di volontari, ma proprio in quei giorni avevano bisogno di aiuto perché erano in pochi, e noi avevamo tanta voglia di capire, tanta voglia di aiutare.
Abbiamo iniziato a smistare i vestiti e a preparare i pacchetti da distribuire alle persone mentre salgono in fila nel treno con cibo e bevande, altri con accessori per l’igiene intima. Per i bambini facevamo dei pacchetti speciali, con una merendina, un succo di frutta e un vasetto di yogurt, per i più piccoli anche qualche pannolino e salviette umidificate, e poi preparavamo i biberon per i neonati. Abbiamo montato una delle tende che abbiamo portato da Berlino perché in caso di pioggia o neve avrebbero resistito e protetto meglio le cose all’interno. Non è stato facile convincere le volontarie ad accettare, proprio per la loro paura costante di essere cacciate.
Il primo treno che ho visto arrivare è difficile da dimenticare. Tanti uomini affacciati alle finestre, tanti giovani. Altre persone ci guardano dai finestrini, qualcuno inizia a salutare, qualcuno resta a guardare immobile. Qualcuno ride e scherza, qualche bimbo piange. Qualcuno chiede qualcosa in arabo, noi in inglese, risponde un altro ragazzino che capisce, vogliono sapere dove sono, qual è la prossima fermata e quanto tempo ci vuole per arrivare. Qualcun altro chiede quanto tempo devono stare fermi li. Bella domanda. Lo scopriremo dopo quasi un’ora; sì, perché quando un treno arriva, le persone restano ferme, bloccate dentro, almeno 45 minuti, spesso di più. Poi iniziano a scendere, tutti in fila per uno, scortati da militari e polizia, chi in divisa normale, chi in tenuta antisommossa, ma tutti con le mascherine. Anche molti volontari sui binari indossano le mascherine. Un po’ esagerato, se non assurdo anche questo, credo. Forse altri ordini dall’alto.
Controllo diretto per chi ha già i documenti, sono loro i primi che scendono, essendo stati già in precedenza selezionati e sistemati nei primi vagoni. Sono prevalentemente siriani, soprattutto famiglie intere e con bambini di tutte le età.
Tutti quelli che non hanno i documenti hanno ancora un altro step a cui sottoporsi: foto, impronte digitali e creazione del nuovo documento.
Dopo l’attesa per il controllo documenti, segue l’attesa per salire sul prossimo treno, e ancora una lunga attesa prima che il treno parta, poi 3 ore circa per Sentilj e poi di nuovo lo stesso procedimento…
Come si fa ad affrontare un viaggio così lungo, senza voler tener conto di queste attese, senza nulla da mangiare, senza bere? come hanno fatto negli altri Paesi, se a stento hanno ricevuto una bottiglietta d’acqua? È umano tutto ciò?
Una sera ho preparato e distribuito almeno quindici biberon per un solo treno, molti genitori mi chiedevano solo l’acqua perché avevano già il loro latte in polvere e il biberon, ma forse quando sono partiti non sapevano che non avrebbero avuto acqua a disposizione. Forse pensavano di poter entrare almeno al bar della stazione, come penserebbe qualsiasi uomo libero. Invece sono prigionieri, veri e propri deportati.
Decidiamo di fare uno striscione di benvenuto, soprattutto per far capire almeno ai quei pochi che parlano inglese dove si trovano: “Welcome to Slovenia, next Austria, next Germany”, con un grande cuore rosso. Ogni treno che arriva lo accogliamo con lo striscione in mano e le persone ci salutano felici, qualcuno ci manda baci e ci risponde con il segno del cuore con le mani. E il mio si stringe, pensando alle speranze e alle vite di milioni di persone appese al filo delle decisioni e delle politiche europee.

20151110_164111Quando il campo di Dobova, asfaltato e ricostruito in soli due giorni, ha riaperto, la situazione è cambiata e le persone, invece di essere spostate direttamente sul prossimo treno, vengono prelevate alla stazione e portate al centro nuovo di zecca. Trasportati in pullman che sembrano provenire direttamente dal secolo scorso, o da uno scenario post-nucleare, con l’autista che indossa una tuta bianca asettica che gli copre anche i capelli, e l’usuale mascherina, tanto che a stento si vedono gli occhi. Uno dei tanti autisti che abbiamo incrociato, la sera in cui abbiamo accolto i pullman con lo striscione, ci ha salutato e fatto gesti di supporto, davvero contento della nostra presenza e della nostra azione. Un altro piccolo gesto che rincuora e mostra un po’ di umanità in uno scenario tanto misero, in cui tanti altri invece, inclusa la gente locale, guardano i volontari come se fossero alieni, se non con fastidio.
Che senso ha portarli in un altro posto solo ed esclusivamente per registrarli? Forse serve per temporeggiare? Guadagnare o perdere tempo? Dipende dal punto di vista da cui si guarda.
Siamo stati qualche giorno all’interno del campo in questione, abbiamo aiutato un gruppo di volontari della Caritas sia a costruire la tenda dell’assistenza medica, sia come supporto ai medici, quando il campo ha riaperto. Anche lì, altra fila per entrare, uno alla volta ricevono una bustina con uno spuntino, altra fila per il riconoscimento, altra fila per la registrazione in un tendone pieno di computer e poi l’attesa in un grande tendone per risalire su un altro pullman che li riporterà alla stazione a prendere il prossimo treno. La notte le temperature scendono, ci sono dei ragazzi della nostra età avvolti in coperte di lana mentre aspettano in fila, forse partiti con vestiti troppo leggeri. C’è un deposito, pieno di coperte, vestiti caldi, giacche, guanti, cappelli e sciarpe per uomini e donne di tutte le età. Qualcuno ne ha bisogno, ma non chiede. Solo chi sta molto male o ha bimbi influenzati o raffreddati chiede assistenza medica. Vengono accompagnati dai poliziotti o dai militari o da altri volontari alla tenda dei medici, anche lì si prendono i dati, ma probabilmente solo per avere una contabilità, niente di ufficiale. 20151112_131612
Arrivano molti bambini influenzati, con tosse o raffreddore, i medici danno loro la cura necessaria e anche medicine sufficienti per i giorni successivi, noi andiamo al deposito a prendere vestiti, giacche, o calze calde, perché la maggior parte di quelli che vengono influenzati, non ha vestiti adatti a stare ore fermi e in piedi al freddo. Diamo loro anche qualche caramella o cioccolatino e qualche giocattolino per tranquillizzarli un po’, ce n’è stato uno solo che ha rifiutato tutto, aveva massimo 6 anni, e non c’è stato modo di strappargli un sorriso. Un bimbo piccolissimo con la febbre alta che sbatteva i dentini per quanto tremava, un altro che piangeva a squarciagola per un’irritazione cutanea alla zona genitale.
Un uomo porta una ricetta scritta dal medico che l’aveva assistito in un campo precedente, ma in serbo, a stento si capisce la parola epilessia. Una malattia grave, per la quale è necessaria una terapia costante e un dosaggio diverso in base al paziente. Per fortuna ci sono due traduttori arabi che aiutano i medici, ma non possono stare costantemente li perché servono un po’ in tutto il campo. Un uomo con una protesi ad una gamba, chissà che dolore avrà dovuto sopportare, quanto avrà camminato e aspettato in piedi… Un uomo con la figlia adolescente disabile, che non sa che i dolori che sente sono dovuti al ciclo mestruale, e quando la dottoressa lo rassicura, lui chiede se è possibile farle un’iniezione come quella che le hanno fatto in Turchia… antidolorifico o cosa? Non si sa, certo per un uomo anziano affrontare un viaggio del genere spingendo la figlia in sedia a rotelle, e doverle cambiare l’assorbente intimo, non deve essere facile. Una signora addolorata per aver perso tutti i suoi ultimi soldi, del marito e del suo piccolo bambino, 600 euro, nel campo in cui erano stati precedentemente, non sapeva cosa fare. Anche una donna siriana con le gambe gonfissime e doloranti, l’unica conosciuta che parla un po’ di tedesco perché ha vissuto anni fa in Germania, ci racconta che ha perso cinquanta euro, li aveva nascosti nelle calze, non ci avrà pensato quando se le è sfilate, ma va be’ quelli li conservava solo per comprarsi le sigarette una volta avutane la possibilità. Fuma le Marlboro lei, e pure troppe. Nel suo paese non c’è più niente, né palazzi, né auto, niente. I suoi vicini sono morti. Chi vuole spostarsi, deve farlo a piedi, e comunque lei non voleva tornarci in Germania, ma purtroppo… col sorriso, con quel modo di ironizzare sulla tragedia simile a quello delle nostre nonne quando ci raccontano della guerra che hanno vissuto qui, mi ha fatto tanta tenerezza, perché siamo tutti uguali.
La notte degli attentati a Parigi, l’Austria ha chiuso immediatamente le frontiere per il tutt’altro che ovvio motivo di sicurezza e tutti coloro che erano già partiti nei pullman per la stazione e tutti quelli che aspettavano già lì per partire, sono stati riportati indietro al campo.
Quando l’Austria decide di riaprire, dopo qualche ora, tutti possono ripartire. Verso nord, nessuno sa dove esattamente, né cosa succederà veramente, una volta arrivati.
Dopo aver visto con i miei occhi migliaia di persone, di famiglie intere che scappano con tutti i propri soldi e soltanto lo stretto necessario in uno zaino, famiglie non necessariamente povere, anzi, che decidono di affrontare un viaggio ai confini della realtà e dei diritti umani, rischiando in molti casi la vita, credo che i termini usati anche in precedenza, deportazione, traffico di persone, siano davvero eufemismi rispetto al movimento di massa a cui stiamo assistendo e alle sue cause. Tutte quelle persone sono vittime di meccaniche e interessi che riguardano tutti noi da molto vicino. Milioni di persone in balia delle politiche europee e soprattutto della “signora comandante” Germania.
Provengono da posti diversi partendo ognuno per conto suo, spendono già buona parte dei soldi per il viaggio, la maggior parte delle volte truffati con biglietti a prezzi assurdi, per arrivare fino al punto in cui perdono la loro libertà di movimento, di esseri umani, perché non possono più comprarsi un biglietto, ma sono costretti a prendere dei treni “speciali” (vecchi e pure maleodoranti) che li portano gratuitamente verso l’ignoto, ma in ogni caso in strutture di accoglienza molto più simili ai lager, da cui poi difficilmente potranno uscire. Non è deportazione questa?
Traffico perché, purtroppo, non serve un esperto in economia per capire che con questo movimento di persone ci guadagnano in tanti. A partire dai veri e propri trafficanti di uomini, che, per fare qualche esempio, in Turchia truffano i poveri innocenti in fuga vendendo loro pacchetti viaggio che includono, oltre al viaggio in chissà che barca per la Grecia, addirittura accoglienza all’arrivo in spiaggia con cibo e bevande e accompagnamento in hotel. Qualcuno ha speso più di duemila euro per passare dalla Turchia alla Grecia. In Slovenia abbiamo sentito che ci sono dei “volontari” che si offrono di accompagnarli oltre il confine per 400 euro, per poi lasciarli abbandonati in qualche campo perso nel nulla.
Infine ci sono tutte le imprese di costruzione, quelle che affittano i capannoni e i bagni pubblici, quelle di pulizia ecc. Da non sottovalutare l’enorme e futile dispiego delle forze dell’ordine nazionali e, come se non bastassero, degli Stati limitrofi, in servizio 24 ore su 24 (per alcuni il servizio consiste nello stare seduto in auto, motore acceso per non far scaricare la batteria, dato che il riscaldamento e la tv consumano).
Nemmeno le piccole imprese locali possono lamentarsi… dovranno pur mangiare impiegati statali e non. Il supermercato e i pochi bar e ristoranti lì in zona, o l’hotel in cui alloggiavano la maggior parte dei volontari che non avevano alternative, non avranno mai avuto tanti clienti come in questo periodo.
Sulla via del ritorno ripensavo ai chilometri e chilometri di concertina, una specie di filo spinato fatto però di lame taglienti, utilizzati per costruire le barriere, nonostante i treni organizzati dai vari Stati. Non esiste più un flusso di persone a piedi tale da giustificarne la costruzione. Appena arrivati sul posto già dalla mattina i militari ne avevano montato chissà quanti chilometri, l’occhio non riusciva a percepire fin dove arrivasse quella barriera, si perdeva all’orizzonte. C’erano balle di questo materiale ammucchiate qua e la, camion dei militari che facevano da spola per trasportarle, qualche fotografo e qualche cameraman per le notizie locali. Qualche giorno dopo i giornali locali hanno mostrato le immagini di cervi squartati dalle lame di questa barriera… 20151111_134107
Se la situazione ci appariva critica lì, tornati a casa non vediamo nulla di buono all’orizzonte. Le idee xenofobe si diffondono sempre di più, anche tra coloro che mai si direbbero razzisti. Si diffonde la paura che i migranti vengano a rubarci il lavoro, che arriveranno tanti delinquenti, che si creerà il caos perché non abbiamo mai vissuto un’ondata di immigrazione come questa. La verità è che il caos c’è già e i governi e le istituzioni non hanno neanche lontanamente idea di come gestire la situazione, temporeggiano e se approfittano. Si parla di integrazione, ma si è ben lontani da qualsiasi programma per metterla realmente in pratica. Che fine faranno tutte queste persone finalmente arrivate in Germania? Di certo non ruberanno il lavoro a nessuno, perché si ritroveranno bloccate in altri centri in attesa di ottenere un permesso di lavoro, bloccate in altri processi burocratici che possono durare mesi, anni.
Se la Germania decidesse di chiudere le frontiere o di dare asilo solo ai siriani e a bloccare tutti quelli provenienti dai paesi che lei stessa ha dichiarato “non a rischio”, anche tutti quelli entrati finora dovrebbero essere rispediti, ovvero ri-deportati in massa, nello Stato in cui sono stati registrati la prima volta, e che sarebbero, guarda caso, i più poveri d’Europa. Mentre quelli che ci hanno guadagnato, continueranno a vivere felici e contenti.
Era ciò che si temeva in quei giorni, mentre eravamo lì, e si è in parte realizzato qualche giorno fa. Migliaia di persone in questo momento sono bloccate al confine tra Grecia e Macedonia, perché è stato vietato l’accesso a tutti quelli che non sono di nazionalità siriana, irachena o afgana e che ora sono stati definiti “migranti per ragioni economiche”. Si continuano, infatti, a modificare le leggi minando sempre di più il diritto di asilo, ultimo esempio quello, appunto, di differenziare esseri umani in base al motivo della loro fuga. Nessun provvedimento, però, contro i contrabbandieri di uomini, nessuna giustizia per tutti quelli che continuano a morire ai nostri confini.
Come non accorgersi allora che sia tutto un business? Che sia un gioco di interessi in cui come al solito a perderci sono sempre le pedine meno tutelate? Mentre coloro che fanno le regole e i confini si arricchiscono sempre di più; ancora di più ora che non regge più, per evidente debolezza, l’abusata scusa del lavoro, e invocano la necessità di difenderci dal terrorismo e dalla guerra.

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